venerdì 24 novembre 2017



L’Assedio di Milazzo secondo i canoni militari del Settecento
a cura di Massimo Tricamo

Come già accennato nel precedente contributo dello scrivente sul combattimento del 15 ottobre 1718, ad avviare l’Assedio di Milazzo furono due unità militari spagnole: i Dragoni di Lusitania ed il reggimento di cavalleria Salamanca. A darne notizia è il conte Pezuela nel suo manoscritto intitolato Primera parte de la guerra de Cerdeña y Sicilia (1755 c.)

Le truppe spagnole dispongono il blocco, inibendo i rifornimenti di viveri alla Piazza di Milazzo In verità tanto il Lusitania quanto il Salamanca si limitarono ad avviare una fase propedeutica all’Assedio, ossia il blocco. «Formasi questo Blocco allorchè una città ridur si voglia alla resa per mezzo della fame», così scriveva il Puysegur nella sua Art de la Guerre apparsa a Parigi nel 1748 e tradotta in italiano cinque anni più tardi (cfr. L’Arte della Guerra, Stamperia Pellecchia, Napoli 1753, p. 304). Il blocco delle arterie di comunicazione - e dunque dei rifornimenti - verso il centro cittadino, o meglio verso la Piazza, è testimoniato da un bando emesso dal comandante Domenico Lucchesi il 29 luglio 1718, col quale - oltre a disporsi la fornitura di viveri per i soldati del campo spagnolo allestito in contrada Belvedere, nonché la fornitura di paglia destinata alla cavalleria accampata nella stessa località - si proibivano i rifornimenti di viveri alla Piazza di Milazzo, ossia al centro urbano allora attorniato e protetto da un robusto recinto murario che si apriva all’imbocco dell’odierna via dei Mille (Porta Messina). «Restino preintese le Signorie Vostre - ordinava il Lucchesi agli amministratori comunali della vicina S. Lucia del Mela il 29 luglio 1718 - che si proibisce, sotto pena della vita naturale, l’entrare qualsivoglia sorte di viveri nella Città di Milazzo o dare a quella qualche sussidio, anzi cerchino d’impedire ogni tragitto e consideratione con quella, come mi comprometto dalla di loro fedeltà ed attenzione» (Archivio Storico del Comune di S. Lucia del Mela, Libro degli Atti dei Giurati - vol. 1717/1721, anno 1718, ff. 82r e 82v).

Le mura urbiche che circondavano e difendevano Milazzo traevano origine dal bastione Messina, sito nell’attuale bacino portuale in prossimità dell’odierna via Calì, giungendo - lungo la via Regis, dove si apriva Porta Messina - sino a piazza Nastasi, ove piegavano in via XX Settembre in direzione S. Papino. In quest’ultimo tratto di mura si apriva Porta Palermo, accanto l’omonimo bastione (incrocio vie Cosenz-XX Settembre). Il recinto murario, salendo al Borgo, si raccordava quindi con la cittadella fortificata per terminare a Croce di Mare, dopo aver sfiorato la chiesa di S. Giuseppe. Una serie di forti e fortini - tra tutti il bastione di S. Gennaro  (in Marina accanto l’imbocco della via C. Colombo) e quello di S. Elmo (piazza della Repubblica) - proteggeva il lungomare di Levante, mentre il Quartiere (con tanto di porta in via Impallomeni) divideva il Borgo dalla città bassa.




Pianta dell’assedio di Milazzo (Plan de la Ville Basse de Melazo avec une partie du fouxbourg en ceint de Muraille et partie de la ville Haute, leurs Situations, Camp de l'ennemie, ses tranchées et Approches avec les Batteries, le tout jusqu'au 17 de 8bre. 1718, Hessisches Staatsarchiv Marburg). Trattasi di copia redatta a Napoli da Pierre Louis Petri contenente tra l’altro la riproduzione del profilo della trincea nemica originariamente disegnato dal Tenente Colonnello Montani. Alla pianta è allegata una precisazione su tale profilo con tanto di descrizione in francese qui tradotta.

Fonte:


«L’Auteur du Plan de Melazo, ayant omis l’echelle pour le profil de la tranchée ennemie devant cette place, j’ai cru de ne la pouvoir mieux trouver que par la hauteur interieure du parapet, parce que cette hauteur est la moins changeante de toutes les parties de la fortification, soit reguliere ou irreguliere, offensive ou defensive, sa hauteur se reglant en sorte qu’un  homme puisse non seulement decouvrir la campagne, mais aussi etre bien couvert, qui est ordinairement de 5 pieds sans les banquettes. Sur ce pied là, j’ay formé l’echelle ci bas, qui fera trouver les autres parties du profil. Si elle n’est pas tout à fait juste, elle sera au moins fort aprochant de la veritable.

ab hauteur interieure du parapet; cd largeur du parapet; be largeur avec le talus; ef la berme; fg largeur superieure du fossè; hi profondeur due fossè».
«Avendo l’autore del Piano di Milazzo omesso di indicare la scala relativa al profilo della trincea nemica dirimpetto questa Piazza, ho ritenuto opportuno ricavarla dall’altezza interna del parapetto, in quanto quest’altezza è la meno mutevole tra tutte le componenti della fortificazione, sia regolari che irregolari, offensive o difensive. L’altezza si regola in modo che un uomo possa non soltanto scoprire la campagna, ma esser anche ben coperto ed è ordinariamente 5 piedi senza le panche di tiro (blanquettes). Su tale base ho formato la scala in basso che consente di calcolare le altre dimensioni del profilo. Se tale scala non è perfettamente corretta è comunque molto vicina alle dimensioni reali.
ab altezza interna del parapetto; cd larghezza del parapetto; be larghezza con la scarpa; ef la berma; fg larghezza superiore del fossato; hi profondità del fossato».



Questo complesso recinto murario, irrobustito da qualche bastione innalzato in prossimità delle porte, al tempo dell’Assedio del 1718/19 racchiudeva dunque la Piazza di Milazzo, a sua volta presidiata dalla guarnigione piemontese rinforzata dalle truppe austriache. Il blocco spagnolo aveva dunque lo scopo di impedire il rifornimento di viveri al centro urbano e di «ridurre la guarnigione, attesa la scarsità de’ viveri in cui si ritrova[va], alla totale consumazione di questi, dimodochè, indebolita da tale od altre sì fatte necessità, sia finalmente costretta ad arrendersi. In tale caso tutte le diverse disposizioni, distribuzioni di truppe ed operazioni, che a tal fine si fanno contro la fortezza, sono generalmente comprese sotto il nome di Bloccus e volgarmente dicesi bloccar la Piazza» (cfr. Andrea Bozzolino, Dell’architettura militare per le regie scuole teoriche d’artiglieria e fortificazione, Nella Stamperia Reale, Torino 1779, p. 5).

Assedio formale ed assedio violento Stancare ed affamare la Piazza era dunque lo scopo del blocco, il quale sarebbe sfociato ben presto nell’assedio. Tre sono le tipologie d’assedio previste dai trattati militari del Settecento: l’assedio formale, quello violento ed infine quello lento. L’assedio formale o assedio reale (in francese siège formel) dettava una serie di adempimenti che prevedevano in primo luogo la messa in sicurezza dell’accampamento o campo, il quale sarebbe stato situato tra le due linee ossidionali di circonvallazione e contravvallazione, terminate le quali veniva avviata l’escavazione verso la Piazza delle trincee ed il contestuale graduale avvicinamento degli assedianti a quest’ultima. Al contrario invece dell’assedio violento (siège brusqué), ove, prescindendosi dalle citate procedure preparatorie dell’assedio formale, complice l’esiguità numerica della guarnigione posta a presidio della Piazza o l’insufficienza delle munizioni a sua disposizione, si attaccava «tutto ad un tratto» la Piazza medesima: «omettendosi  dall’assalitore buona parte delle principali e primarie operazioni dell’assedio formale, egli porta tutto ad un tratto il suo alloggiamento sullo spalto o in gran vicinanza di questo» (Bozzolino, Dell’architettura militare cit., p. 4).

A Milazzo l’intenzione originaria degli Spagnoli fu quella di tramutare il blocco in un assedio formale. Ne fanno fede i rapporti, le istanze e le relazioni cifrate inoltrate dal viceré marchese di Lede negli ultimi mesi del 1718 alla corte di Madrid, al fine di ottenere per Milazzo rinforzi di truppe e munizioni. Documenti in lingua spagnola - preziosi ed inediti - oggi custoditi presso l’Archivo General de Simancas. Prima di citarli occorre tuttavia esaminare dettagliatamente le fasi preparatorie che contraddistinguevano l’assedio formale, ad iniziare dalle citate linee ossidionali tra le quali trovava ospitalità il campo spagnolo.

Gli elementi preparatori dell’assedio formale: il campo e le linee ossidionali Come già anticipato nel saggio dello scrivente sui combattimenti del 15 ottobre 1718, il campo spagnolo fu allestito originariamente lungo l’odierno tracciato della SS113, tra la contrada Belvedere (allora territorio comunale di S. Lucia, oggi invece ricadente nel Comune di S. Filippo del Mela) ed il Comune di Merì. Nel bando sopracitato, emesso dal maresciallo di campo Domenico Lucchesi in data 29 luglio 1718, si apprende infatti che l’accampamento spagnolo era «situato in mezzo di Limiri e Belvedere».

Successivamente, il sopraggiungere tra settembre e metà ottobre 1718 di nuovi battaglioni di fanteria e di ulteriori reggimenti di cavalleria e dragoni rese indispensabile trasferire il campo spagnolo in posizione più avanzata, ossia nel bel mezzo della Piana, tra il lungomare di Levante, in prossimità degli odierni impianti della Raffineria, e quello di Ponente, in prossimità dello sbocco dell’attuale via Rio Rosso (contrada Casazza).
L’assedio di Belgrado del 1688 in una pianta del 1717 custodita presso la Biblioteca Nazionale di Francia. Si distinguono la linea di circonvallazione (C), quella di contravvallazione (D) ed il campo degli assedianti collocato tra le due linee (E). La presenza dei corsi d’acqua evitò di realizzare l’intera circonferenza delle due linee, che dunque non avvolgevano l’intera Piazza di Belgrado (A). Si notano infine le trincee a zig-zag (B) costruite dagli Imperiali (gli assedianti) per approssimarsi e dar l’assalto alla stessa Piazza.


La scelta di puntare sull’assedio formale imponeva in primo luogo la costruzione delle linee, ossia della linea di circonvallazione e di quella di contravvallazione. Erano entrambe delle trincee con tanto di parapetti ed erano denominate altresì linee ossidionali. La circonvallazione veniva costruita attorno alla Piazza allorquando si nutrivano fondati sospetti che alla stessa potessero arrivare soccorsi. Era dunque rivolta verso la campagna con lo scopo appunto di ostacolare gli attacchi dall’esterno. La linea di contravvallazione - parallela a quella di circonvallazione - era invece rivolta verso la Piazza ed aveva lo scopo di respingere le improvvise sortite degli assediati. «Le linee che s’intendono tirate da un’opera all’altra si chiamano linee di comunicazione. E si dice volgarmente linea al di dentro la contro-vallazione per impedire le sortite, linea al di fuori la circonvallazione per opporsi ai soccorsi. La prima altresì si chiama linea offensiva, la seconda difensiva» (Girolamo Fonda, Elementi di Architettura Civile e Militare ad uso del Collegio Nazareno, Stamperia Mainardi, Roma 1764, pagg. 112-113).

L’assedio formale entra nel vivo con l’«apertura della trincea»: lo scavo di trincee e zappe sino all’assalto finale La linea di circonvallazione (ligne de circonvallation) veniva innalzata «fuori la portata del cannone della Piazza». Al riparo del fuoco nemico doveva essere posto ovviamente anche il campo degli assedianti. Norme simili valevano anche per l’altra linea ossidionale, la ligne de contravallation: «la contravvallazione si terrà, per quanto sia possibile, oltre in gran tiro del cannone della Piazza» (Bozzolino cit., pag. 61). Una volta approntate ed erette le due linee ossidionali ed il campo che vi stava in mezzo, si «apriva la trincea» (momento solenne d’un assedio), ossia si iniziavano le opere di scavo, le trincee (trinciere nel gergo militare dell’epoca, ma anche approcci) che - procedendo a biscia (en zig-zag) per evitare il tiro d’infilata del nemico - consentivano man mano agli assedianti di avvicinarsi alla Piazza sino a raggiungere, sotto la loro protezione, il piede della fortificazione prescelta (di norma un’opera del perimetro murario della Piazza giudicata dagli assedianti quale punto debole della difesa, punto debole cui dar l’assalto dopo aver aperto una breccia). L’andamento a zig-zag (da cui si singoli rami in cui si frazionava ciascuna trincea) imponeva il continuo riposizionamento del parapetto, innalzato ora a destra, ora a sinistra del fossato della costruenda trincea: ciò per proteggersi ovviamente dal fuoco della Piazza. E poiché la coda della trincea, ossia il suo punto iniziale, era ubicata in lontananza, dunque al riparo del tiro delle artiglierie nemiche, man mano che ci si approssimava verso la Piazza grazie all’opera dei guastatori addetti allo scavo della stessa trincea, il fuoco nemico diventava sempre più intenso e pericoloso, ragion per cui occorreva proteggere l’opera degli addetti alle opere di scavo in modo adeguato. Entravano così in gioco gli zappatori (sapeurs), i quali, sostituendosi ai guastatori, continuavano ad avanzare verso la Piazza con lo scavo di cunicoli di forma ridotta, le zappe. La costruzione d’una zappa (sape) sotto il fuoco nemico era un lavoro molto rischioso, da cui gli elevati compensi che spettavano ai singoli zappatori. «Quattro sono i Zappatori che sogliono impiegarsi per lo scavo della fossa. Il primo scava per un piede e mezzo di larghezza e altrettanto di profondità. Il secondo accresce lo scavo per 6 pollici, tanto in larghezza che in profondità. Il terzo e il quarto scavano per un altro mezzo piede e per altrettanto accrescono la larghezza. A questi quattro, stanchi che sono, ne succedono altri quattro, e così in appresso senza interruzione si procede fino al compimento del divisato lavoro di trincera» (Fonda cit., pp. 113-114). La terra scavata veniva man mano gettata entro gabbioni che, posti l’uno accanto all’altro, fungevano da parapetto della zappa. A proteggere lo scavo del primo zappatore provvedeva di norma un grande gabbione colmo di fascine posto in orizzontale e fatto ruotare con l’ausilio di lunghe pertiche (cosiddetto gabbione fascinato) oppure una sorta di carretto (mantiletto, in francese mantelet) munito di timone che ne agevolava la manovra: entrambi avevano lo scopo di proteggere dal fuoco nemico l’operatore durante la posa del gabbione vuoto. La lunga sequenza dei gabbioni (gabions), posti come orlatura e parapetto del cunicolo scavato (la sape) veniva a sua volta ricoperta da fascine e quindi da pietrame e terra, come si osserva nell’allegata raffigurazione tratta dalla famosa Encyclopédie di Diredot e D’Alembert (1751-1772), a sua volta rielaborazione di quella apparsa anni prima nel celebre trattato del Vauban (De l’attaque et de la defense des places par Monsieur de Vauban, Chez Pierre de Hondt, A La Hate 1737). Lo stesso Vauban descrive il successivo allargamento dello zappa: terminata l’opera dei sapeurs, infatti, la zappa - che come si è accennato presentava dimensioni ristrette - veniva allargata dai guastatori sino a raggiungere le consuete dimensioni di una trincea (tranchée): «a mesure que la sape avance, on fait garnir celle qui est faite par les Travailleurs del la Tranchée, qui l’élargissent jusqu’à ce qu’elle ait 10 ou 12 pieds de large sur 3 de profondeur. Pour lors elle change de nom et s’appelle Tranchée» (De l’attaque et de la defense cit., pag. 48)




Zappatori (sapeurs) al lavoro nelle eleganti tavole del Vauban (De l’attaque et de la defense des places par Monsieur de Vauban, Chez Pierre de Hondt, A La Hate 1737).


La documentazione coeva custodita presso gli archivi storici comunali di S. Lucia del Mela e Castroreale attesta nel periodo dell’Assedio di Milazzo diverse forniture di fascine destinate alla guarnigione piemontese, prima, ed al campo spagnolo, dopo, fascine per le quali venivano fornite dimensioni e modalità di costruzione. Ordinate a mazzi, le fascine dovevano essere «di rame verdi d’alberi infruttiferi». Inoltre «li mazzi sudetti si faccino lunghi palmi quattro con un paletto per mazzo», avvertivano in due bandi emessi, rispettivamente, l’8 e l’11 giugno 1718 gli amministratori comunali di S. Lucia del Mela, che precisavano: «in ogni mazzo esservi paletti di legno di lunghezza di palmi quattro grossi quanto un braccio». Considerando un palmo equivalente a circa 25 cm, se ne ricava che ciascun mazzo di fascine era lungo un metro.

A differenza delle fascine, di agevole preparazione, i gabbioni richiedevano invece manualità ed pazienza. Impiegati ancora largamente nella seconda metà dell’Ottocento, erano preparati impiegando di norma 8 paletti lignei (picchetti) alti un metro e muniti di punta ad una delle due estremità. La parte acuminata veniva conficcata al suolo per poter procedere alla paziente preparazione del rivestimento di vimini. Ne risultava una sorta di cestone senza fondo alto 80 cm e con un diametro di circa 65 cm. Al momento della posa in opera durante la escavazione della zappa (sape) le punte dei picchetti venivano però rivolte verso l’alto, onde agevolare la presa delle soprastanti fascine poste a coronamento del parapetto della zappa medesima: «i gabbioni debbono esser posti con il di sopra di sotto, perché nell’avanzo de’ paletti che li circondano si possano infilare le fascine, che debbono esser fitte sopra di essi dopo riempiti» (Francesco Ferro, Istruzioni Militari, dalle Stampe di Jacopo Turlino, Brescia 1751, p. 203).


Zappatori (sapeurs) in una tavola della famosa Encyclopedie di Diredot e D’Alembert (1751-1772) che ripropone la grafica presente nel volume del Vauban.


A causa della perdita della Comarca, ossia del distretto costituito dai comuni dell’hinterland milazzese che militarmente dipendevano dalla Piazza di Milazzo, distretto caduto in mano spagnola nel luglio 1718, le forze austro-piemontesi furono costrette a rifornirsi di fascine e gabbioni altrove, perlopiù nella più vicina Calabria. Ne fanno fede le continue cronache dell’Assedio apparse sul Corriere Ordinario, dal quale si apprende che le fascine venivano anche impiegate per riparare prontamente le brecce aperte dall’artiglieria spagnola nel bastione di Messina, brecce che a volte si aprivano - indipendentemente dal fuoco nemico - per vetustà delle stesse opere fortificate. A darne testimonianza questa cronaca di fatti accaduti il 7 dicembre 1718: «Dal Bastione Palermo a man dritta cadde questa notte il fianco da per se, senza essere stato battuto dall’inimico. Ma fu riparato immediatamente con fascine et altro (cfr. Corriere Ordinario del 7 gennaio 1719).





La costruzione della zappa in una raffigurazione spagnola che riprende quella del Vauban (Colección de cuadros y planos sobre la guerra de Cerdeña y Sicilia, en los años 1717 a 1720 attribuito da alcuni autori a Jaime Miguel de Guzmán, Marqués de la Mina e custodito presso la Biblioteca Nacional de Madrid).
 
Il mancato “assedio formale”. Dal blocco all’assedio lento della Piazza di Milazzo Punto di partenza era dunque l’approntamento delle linee ossidionali di circonvallazione e contravvallazione entro cui veniva situato - e nel contempo  protetto - il campo delle forze assedianti. Fatto questo si sarebbe proceduto ad «aprir la trincea». Erano queste le operazioni che contraddistinguevano un assedio formale. A Milazzo - come accennato in precedenza - l’intenzione originaria dei vertici militari spagnoli fu quella di tramutare il blocco in un assedio formale. Ed infatti, in seguito alla «sortita generale» del nemico, che il 15 ottobre 1718 aveva dato luogo ad aspri combattimenti, il marchese di Lede dispose, appena 2 giorni dopo, ossia il 17 ottobre, l’apertura di una prima linea di contravvallazione, ideata proprio per prevenire nuove sortite austro-piemontesi. Dotata di postazioni avanzate, questa linea fu costruita nel miglior modo possibile, tenendo conto della natura del terreno.

Non fu invece innalzata l’altra linea, quella di circonvallazione, visto che i soccorsi nemici sarebbero arrivati comunque (ed agevolmente) dal mare, lungo le coste del Capo. Ed essendo pertanto improbabile che potessero giungere dalla campagna.  D’altra parte lo stesso Bozzolino nel suo trattato di architettura militare del 1779 scriveva che «ove nulla s’abbia a temere dalla banda della campagna, sarà sufficiente l’accampamento delle truppe intorno alla Piazza» (pag. 46).

Se da un lato il marchese di Lede non ritenne opportuno innalzare la circonvallazione, dall’altro non esitò a far costruire dal 29 ottobre 1718 una seconda linea di contravvallazione, 350 passi più avanzata rispetto alla prima e distante 900 passi dalle mura che cingevano la Piazza. Come ebbe a relazionare lo stesso Marchese di Lede al Ministro della Guerra Duran, questa seconda linea - che il 2 novembre 1718 risultava ancora in costruzione sebbene senza alcun disturbo da parte nemica - aveva lo scopo di chiudere (cerrar) il nemico ed ostacolarne ulteriori sortite, sempre più probabili visto il dispiegamento di forze austro-piemontesi in campo, le quali ai primi di novembre 1718 ascendevano a 5.000 fanti e 700 unità di cavalleria, a fronte di oltre 12.000 fanti spagnoli (cfr. Archivo General de Simancas, Legajo num. 4570, Secret. de Guerra y Marina, sala 39).

Terminata anche questa seconda linea, alla quale si lavorò giorno e notte, si sarebbe provveduto finalmente ad «abrir la trinchera», ossia ad aprire la trincea. Era questo l’auspicio del marchese di Lede, il quale tuttavia - in vista di un tale passo così delicato - non mancava di valutare l’entità delle forze in campo, visto che i rinforzi di truppe destinati da Genova al nemico avrebbero potuto consigliare molta prudenza. Peraltro, l’esecuzione di trinceramenti anche lungo lo schieramento nemico lasciava presagire un assedio che sarebbe costato molte vite umane («un sitio que costarà mucha gente»).

La condotta del marchese di Lede sarebbe diventata sempre più prudente nei giorni successivi. Il 22 novembre 1718, mentre le operazioni proseguivano con un avanzamento dei «lavori di zappa» (ormai la seconda linea di contravvallazione si trovava a distanza ravvicinata al trinceramento che gli austro-piemontesi le avevano opposto a protezione di Porta Messina e dell’intero fronte meridionale della cinta muraria della Piazza), il marchese dava notizia al Duran dell’ultimo rinforzo di truppe giunto al nemico. La facilità del trasporto dei rinforzi via mare, unitamente alla previsione di ulteriori truppe nemiche in arrivo da Genova - scriveva il marchese - facevano ipotizzare un dispiegamento di forze paritario: una consistenza numerica delle truppe austro-piemontesi sostanzialmente equivalente a quella delle truppe spagnole («seràn iguales â nosotros»). Questa premessa, unitamente alla circostanza delle continue morti registratesi durante i lavori agli approcci e tenuto presente il numero dei feriti, spingeva il marchese a indugiare sull’«apertura della trincea» ed a richiedere alla Corte di Madrid un consistente rinforzo di 10-12 battaglioni. Ma le continue richieste di rinforzi venivano puntualmente disattese dal sovrano, impossibilitato a trasferire truppe dalla Spagna a causa del conflitto in corso con la Francia che aveva appena dichiarato guerra allo stesso Filippo V, sebbene non avesse ancora avviato le ostilità. Ciò spingeva il marchese di Lede ad impinguare le proprie truppe - decimate da morti e feriti - perlopiù con mezzi di fortuna, reclutando i disertori austro-piemontesi che decidevano di «prendere partito» per la corona di Spagna, spesso per meri motivi di convenienza economica. Infatti in una delle sue corrispondenze da Milazzo del 27 dicembre 1718, lo stesso marchese non mancava di far presente le difficoltà da lui incontrate nel reclutare disertori, visto che le truppe nemiche erano state pagate puntualmente, con un inevitabile riduzione del numero delle diserzioni dal campo austriaco e dalla guarnigione piemontese. E non c’era nemmeno tanto da sperare dal reclutamento dei battaglioni siciliani che la Corte di Madrid aveva autorizzato alcuni mesi prima, se si considera che tale reclutamento procedeva alquanto lentamente.

Preso atto dunque della paritaria composizione numerica degli opposti schieramenti, al marchese di Lede non restava che sperare in una successiva riduzione delle truppe austro-piemontesi o nell’arrivo di rinforzi dai possedimenti spagnoli d’Italia (Sardegna e Forte Longone nell’Isola d’Elba). Solo con un consistente vantaggio numerico avrebbe infatti tentato un attacco alla Piazza. È quanto emerge da una sua lettera inviata al Duran il 27 dicembre 1718. Ma fin quando la situazione sarebbe stata di sostanziale parità, avrebbe fatto appello alla prudenza, «ritenendo temerario intraprendere, con numero quasi uguale di truppe, l’attacco di questa Piazza». Fu questo il motivo che lo aveva spinto a non «aprire la trincea» e quindi a «non dare inizio all’assedio».

Ma se il marchese di Lede agli sgoccioli del 1718 non aveva ancora dato inizio all’assedio, perché le vicende belliche dello stesso 1718 (così come quelle dell’anno successivo) passarono alla storia con la denominazione di «Assedio di Milazzo»? Perché, come si è accennato in precedenza, esistevano diverse tipologie d’assedio. E quello tentato inizialmente dagli Spagnoli a Milazzo fu un «assedio formale», caratterizzato dalla sequenza creazione delle linee ossidionali / piazzamento del campo / apertura della trincea. Mancando tuttavia quest’ultimo requisito, ossia l’apertura della trincea e dunque l’escavazione verso la Piazza delle trincee ed il contestuale avvicinamento degli assedianti alla stessa Piazza, venne meno lo stesso assedio formale. Ma di assedio pur sempre si trattò, perché il blocco o bloccus disposto inizialmente dagli Spagnoli - malgrado l’abbozzo di un assedio formale, rimasto dunque monco - si tramutò ben presto in un assedio lento, terza ed ultima tipologia di assedio consistente in continue offese d’artiglieria condotte a distanza con mortai e cannoni d’ambo le parti. A tal proposito aiuta non poco il citato trattato di artiglieria del Bozzolino che così scriveva: «Potendo anche succedere che, malgrado lo stretto bloccus, la guarnigione, mediante ogni più minuto risparmio, si prefigga con ostinazione di sostenere la Piazza sino alla totale consumazione de’ viveri. Sicché l’assalitore, per non perder tempo, si determini d’assediarla. In tal caso, se l’assedio si farà nelle forme ordinarie dirassi assedio formale (…) o pure violento (…). Ma se la Piazza si tormenterà solamente colle bombe e anche col cannone, senza però molto avvicinarvisi, l’assedio si denominerà Assedio lento» (pagg. 5 e 6).

La corrispondenza inoltrata da Milazzo al Ministro Duran non manca poi di fornire altri particolari interessanti sulle citate due linee di contravvallazione, le quali suscitarono critiche e riserve. È quanto emerge da una missiva scritta dal marchese di Lede il 16 dicembre 1718. L’ostinazione del marchese a mantenere tali linee traeva origine da una motivazione alquanto articolata: qualsiasi movimento teso a retrocedere l’avanzamento delle truppe spagnole avrebbe finito per scoraggiarle, agevolando nel contempo l’entrata nel Regno di Sicilia da parte del nemico, che così avrebbe interrotto la comunicazione spagnola tra Milazzo e Palermo, da dove giungevano le rimesse di grano destinate alle stesse truppe. Con conseguente rischio di carestia, visto che sarebbe stato impossibile rimediare grano via mare, dove le navi inglesi inibivano ed ostacolavano qualsivoglia navigazione e trasporto destinato alle forze militari spagnole.

A proposito delle linee di contravvallazione occorre poi aggiungere che sorsero entrambe sotto il tiro delle artiglierie nemiche, contrariamente alla regola generale che le voleva di norma (e quindi non sempre) al riparo del fuoco nemico. La prima, quella più lontana dalla Piazza, passava in prossimità della Casa de S. Juan, a sua volta vicina alla chiesa rurale di S. Giovanni, ed è contraddistinta nella precisa pianta della raccolta Schmettau (pubblicata nel 1992 nel noto Atlante di Liliane Dufour) dal num. 40. Proprio perché sorte sotto il fuoco nemico, tali linee di contravvallazione - che come si è detto erano sostanzialmente delle trincee - ebbero origine dall’escavazione di zappe poi allargate.

Che l’assedio formale stentasse a decollare fu chiaro sin dall’inizio anche ai nemici. Il Corriere Ordinario del 19 novembre 1718, dando notizia di quanto avvenuto a Milazzo il precedente 17 ottobre, così annotava: «vennero anche delli disertori, li quali rapportarono che l’inimico difficilmente aprirà la trinciera, avanti d’havere trincierato tutto il suo campo, per tema d’essere di nuovo attaccato all’arrivo di più truppe cesaree». Ed ancora: «A li 22 d’ottobre (…) il nemico cannona, ma fin’ora non ha altra batteria che la già scritta al mare, dalla quale con 8 cannoni grossi ci rende malsicuro il Porto e fiancheggia li nostri aditi, cercando altresì di trincerarsi maggiormente nelle case situate nelle vigne. Dal che si arguisce che, prima d’essersi ben fortificato nel suo campo, non sia per far un Assedio formale. Il che tanto più si diduce da ciò che ormai fin dalli 15 non ha fatto verso di noi alcun lavoro o trinciera, fuorché la linea tirata dalle case sin’al mare». Lo stesso Corriere Ordinario (numero del 19 novembre 1718) comunicava nel consueto diario sull’Assedio di Milazzo che in data 19 ottobre il nemico spagnolo aveva «elevata fuor di modo la sua linea di contravallazione». Il successivo 20 ottobre 1718 riportava inoltre questo curioso aneddoto: «alle 8 ore della sera venne sulli nostri posti anteriori il secondo ingegniere dell’essercito angiuino, Colonnello Guillaumon, il quale s’era smarrito nel tirar una nuova linea. Ma da questo non si potè ricavar altro senò che l’inimico adunasse le sue truppe da tutte le parti, havendo ormai insieme da 26 battaglioni e tutta la cavalleria, lasciatisi soli 2 battaglioni in Messina». Infine, alla data del 21 ottobre 1718 lo stesso periodico riportava quanto segue: «abbenchè il reggimento di artiglieria nemico sia arrivato nel suo campo, con tutto ciò si sa ch’il medesimo non habbia che 15 cannoni da batteria, e che tiri con soli 9 per fiancheggiar il Porto, ma senza fare danno. E che gli manchino li mortari, aspettando però più di 40 cannoni». L’assedio lento a colpi di cannone e mortaio avrebbe ben presto mutato il quadro degli armamenti.


Pianta di Milazzo del 1718 e relativa nota allegata indicante i reggimenti impegnati nel combattimento del 15 ottobre 1718 e successivamente a questo (Colección de cuadros y planos sobre la guerra de Cerdeña y Sicilia, en los años 1717 a 1720 attribuito da alcuni autori a Jaime Miguel de Guzmán, Marqués de la Mina e custodito presso la Biblioteca Nacional de Madrid).

Fonte: